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E’ da un po’ di tempo che rifletto e medito sulla sincerità, sulle interpretazioni di questa parola e sugli effetti che queste diverse interpretazioni hanno sul comportamento umano e sulla buona o cattiva riuscita delle relazioni.

Molto spesso si sentono affermazioni del tipo “io sono sincero/a dico sempre quello che penso” oppure “io non ho filtri devo dire quello che penso” e non di rado questo genere di frasi sono usate come giustificazione per una lite o un fraintendimento, quindi un fallimento in termini di efficacia comunicativa, laddove la buona riuscita della comunicazione è quando per un contenuto (concetto, frase, pensiero) c’è un contenitore pronto ad accoglierlo, o per essere più chiari, quando una frase viene formulata dalla persona giusta, alla persona giusta e nel momento giusto.

Temo che il termine sincerità sia mal utilizzato in questi contesti, laddove dietro alla presunta sincerità si cela un bisogno , talvolta compulsivo, di sfogare un materiale emotivo che si genera in colui/colei che “deve” dire quella tal cosa in quel tal momento.

La mia non vuole essere una elucubrazione su dei miei pensieri ma come ormai da un po’ di tempo a questa parte uno spunto per studiare e analizzare un ambito della vita secondo la visione yogica e più precisamente leggendone la descrizione che Patanjali ne propone negli yoga sutra.

Il secondo libro o capitolo dei stura, quello che descrive la pratica si apre con la definizione di cosa sia il raggiungere lo yoga tramite le proprie azioni cioè il kriya Yoga (che non è il nome di una scuola o uno stile con marchio registrato e detentore di un copyright ma appunto la definizione che ho appena dato!) e cioè un cammino fatto di Tapas (volontà disciplina), svadhyaya (studio del sé e dei testi antichi) e Ishvara pranidana (sottomissione della razionalità al se superiore o al divino), laddove il tapas si esprime con la comprensione e la pratica di yama (disciplina sociale) niyama (disciplina individuale) asana (forgiare il corpo e renderlo un veicolo adatto alla crescita spirituale) e pranayama (sviluppo energetico e controllo della mente), lo svadhyaya con il ritiro dei sensi verso il mondo interiore o pratyahara e la concentrazione (dharana) e il viaggio verso il divino Isvara pranidhana viene compiuto nel dhyana o meditazione e nel suo risultato compiuto o samadhi, assorbimento. Questi ambiti costituiscono una fase esterna ed esteriore del cammino (bahiranga sadhana) e una fase interna e interiore (antaranga sadhana)  e rappresentano la totalità delle azioni, fisiche (karmamarga) intellettuali (jnanamarga) e spirituali (bhaktimarga).

Quanto studio e quanta disciplina e quanto tempo prima di poter “vedere” quella verità che presupponiamo e più spesso presumiamo di poter dire con la nostra sincerità!! Certamente la sincerità viene citata anche nei stura, in effetti uno degli yama, il secondo, Satya, significa appunto purezza sincerità genuinità onestà, e il sutra recita appunto “satyapratisthayam kriyaphalastrayatam” che può essere tradotto con “quando nel praticante la verità è stabile e consolidata le sue parole diventano così potenti da realizzarne il significato”.

Avvolto in questo alone mistico e misterioso che sembra dare alla sincerità la valenza di una formula magica di Albus Silente in realtà l’aforisma è come un forziere da aprire per scoprirne i tesori nascosti…

Patanjali sceglie accuratamente l’ordine con cui elencare gli yama, e per primo non a caso parla di a-himsa (a privativa “senza”, “non” e himsa = nuocere, violenza) come principio primo e cardine del cammino yogico, molto spesso costellato di insidie e di rischi di scadere proprio in Himsa verso se stessi e verso gli altri. E una versione egocentrica ed egoistica di Satya, della sincerità appunto, che non contempla l’altro in modo ampio e scevro dai propri schemi riduttivi, scade facilmente nel “violentare” l’altro con quelli che , se pur ben camuffati da espressioni sincere del proprio pensiero sono facilmente sfoghi emotivi necessari per il proprio benessere e per soddisfare un bisogno che è solo del proprio ego.

In questo senso l’unica verità che può essere detta è La Verità , solo che questa dovrebbe essere prima vista! e concordo pienamente che quando La Verità viene detta non può che sortire un buon effetto nell’altro, piacevole o spiacevole che possa apparire ai filtri razionali o sociali.

Tornando invece alla presunta sincerità, quella più comune ahimè, occorre tornare indietro di un passo e lavorare molto su ahimsa, perché l’errore sta proprio in un fraintendimento di fondo, cioè scambiare la necessità di dare fiato alle trombe ed esprimere ogni propria emozione senza considerare l’effetto che questo avrà sull’altro con la sincerità, che invece è un processo più evoluto e saggio, e prevede che chi la utilizza, per poterla utilizzare bene ed efficacemente, abbia risolto il proprio bisogno emotivo di interferire nella vita altrui, di cambiare gli altri per renderli vicini alla propria immagine di bene e male e possa vedere il percorso dell’anima ed andare in armonia con essa, allora , solo allora avrà un pensiero che potrà esprimere con sincerità, prima di allora non si può parlare di sincerità perché il soggetto non è libero di esprimere sinceramente un pensiero risolto e congruo, perché ha bisogno di far uscire quel materiale emotivo dal proprio cuore per non scoppiare e il più delle volte quel qualcosa è un’emozione negativa, critica, distruttiva , un Himsa. Gregor Maehle, noto maestro di ashtanga che scrive dei bellissimi libri di tecnica e filosofia yogica, definisce satya come una verità piacevole da udire io mi permetto di correggere il tiro in “la verità che non si può far altro che accogliere e accettare”.

Questo studio, svadhyaya appunto, non è avulso dalla pratica degli asana, o del pranayama o della meditazione, è anzi una sua conseguenza in un certo senso, perché presuppone calma, silenzio della mente e autodisciplina, tutte qualità che si costruiscono giorno dopo giorno nella pratica e nello studio del non attaccamento.