Aparigraha, ovvero il non-possesso, la capacità di non desiderare altro da quello che si ha in quel momento. In questi giorni questo concetto ritorna spesso alla mia mente. Credo sia l’essenza di questo mio viaggio in India, quello di quest’anno. Ogni viaggio lascia qualcosa, un semino che lentamente comincia a germogliare col passare dei mesi. Credo che il semino di quest’anno sia proprio Aparigraha. L’India è un luogo in grado di mettere a nudo tutto, di lasciarti con la parte più tenera e sensibile esposta, in mezzo a un turbine. I parametri indiani sono molto lontani dai nostri. Già studiando la filosofia induista e indiana ti rendi conto come bene e male non siano separati così nettamente come, invece, si tende a cercare di fare in occidente. I punti di riferimento cambiano, cambiano tanto, e se si tenta di giudicare con i filtri occidentali questa esperienza, si rischia non solo di rimanere delusi, ma addirittura di odiarla. Quando ho iniziato a leggere i miti indiani, la prima cosa che mi ha colpito è stata la truculenza e la discutibilità di alcune azioni compiute, per esempio, dalle divinità. Nella mia mente la divinità doveva essere una figura perfetta, priva di difetti e di debolezze. Le divinità indiane si arrabbiano, tagliano le teste, sono invidiose, si vendicano (chi ha studiato epica a scuola ritroverà molti rimandi al mondo greco e latino). Tutta questa contraddizione l’ho ritrovata in India. Preciso, non sto dicendo che in occidente ci siano i buoni e i cattivi, divisi in due fazioni facilmente distinguibili. Trovo però che in India la modalità così profondamente diversa di vivere sia spesso spiazzante per un occidentale a caccia di certezze e punti di riferimenti. Così, quando vengo in India, più che in altri posti, cerco di sospendere il giudizio e semplicemente osservare e chiedere. Gli indiani (e in questo non c’è giudizio, ma semplice osservazione) non si vergognano di cose che noi invece giudichiamo inammissibili e assolutamente insopportabili. Credo che un fenomeno o un pensiero cambino di valore a seconda del sistema nel quale vengano osservati. Non credo negli assoluti, credo nei punti di vista e nello sforzo che ci permette di cambiare posizione e osservare da un’altra posizione.
Questa mattina mi sono alzata con la parola Aparigraha in testa e la definizione che ne da Donna Farhi nel suo libro Lo yoga nella vita e ho deciso di scrivere questo mio ultimo post sul viaggio in India di quest’anno, una riflessione finale che chiude l’esperienza di questi 15 giorni, lasciando uno strascico e un lavoro importanti per i mesi a venire:
Infine il quinto yama, aparigraha o “non afferrare”, ci dice che lasciar andare tutte le immagini e identità che ci siamo ricamati addosso è una via sicura per realizzare la natura aperta della mente. Il vero e proprio battaglione di fanteria che ci tiriamo dietro in termini di oggetti, ruoli e immagini, che si tratti degli abiti giusti o del quartiere giusto, non fanno altro che offuscare la nostra vera natura. Il quinto yama ci dice: se anche queste identità e questi ruoli fanno parte della nostra vita quotidiana, non ci devono appesantire e non potranno mai essere specchio veritiero della nostra natura assoluta.
L’augurio è quello di imparare a spogliarsi delle esigenze per potersi godere appieno ogni singola opportunità che la vita ci offre.