Siamo all’aeroporto. Fuori piove. Aspettiamo di fare il check-in scaladandoci con un masala chai. Il viaggio da Mysore a Bangalore è stato, come al solito, piuttosto impegnativo, tra buche, salti, tamponamenti sfiorati e cedimenti da testa ciondolante. L’autista sembra un bambino, con i baffi. Ci chiediamo se abbia la patente, ma alla fine guida molto meglio di altri autisti che ci hanno strapazzato in giro per l’India. Piove forte fuori, i finestrini sono aperti, forse per evitare che lui si addormenti. Fa freddo. Il pulmino è illuminato da luci verdi e rosse, sembra di essere in discoteca. Anche perché la musica è a palla. Shakira canta mentre attraversiamo Mysore. Sembra di essere in un film.

Arriviamo prestissimo all’aeroporto, alle 3. Il nostro volo è alle 10, ma visto lo stato delle strade indiane e la loro guida abbiamo pensato di fare le cose con calma e partire senza andare a dormire. L’idea era quella di dormire in pulmino, ma con i finestrini aperti e l’acqua che entra a secchiate non è facile neanche per me…

Tra una colazione, un pisolo e l’acquisto di un altro paio di libri il tempo passa abbastanza in fretta. Partiamo. La fortuna vuole che dietro di me si siedano mamma e figlia piccolina. La bimba è adorabile finché non decide di prendere a pugni il mio sedile e piangere ogni volta che la madre cerca di farla stare seduta. Molto bene. Il volo dura 2 ore e mezza. Tutte così. Comincio a essere esasperata. La stanchezza si fa sentire, i pugni e le urla anche. Per fortuna è ora di atterrare. L’aereo comincia a scendere e non ci facciamo mancare una bella perturbazione che ci fa ballare parecchio. Mi giro verso la mia vicina. È terrorizzata. Si è improvvisamente irrigidita sul sedile, gli occhi spaventati, la fronte leggermente imperlata di sudore. Mi si stringe il cuore a vederla così. Vorrei rassicurarla, dirle che non succederà nulla, ma mi perdo nell’osservazione di quello che mi sta accadendo. Improvvisamente non sento più le urla della bambina. Meglio, se ci faccio caso la sento eccome, ma la mia attenzione è spostata ormai sulla ragazza sofferente e c’è solo quel pensiero, ora mescolato all’osservazione che sto facendo del mio comportamento. Mi è lampante, in questo momento, il concetto di mente osservante e mente osservata. In questi giorni mi capita spesso di trovarmi sospesa tra questi due “livelli”. Tutto diventa più chiaro e osservabile, direi oggettivo.

Atterriamo con qualche minuto di ritardo. Anche per chi deve prendere un altro volo senza uscire dall’aeroporto ci sono i controlli. Gli indiani in divisa, in qualche ruolo “istituzionale”, non sono propriamente simpatici. Duri, ti fanno domande con fare accusatorio, come se fossi lì per fregarli o rubare qualcosa. Mentre sono in coda per il controllo passaporti e osservo come si comportano mi viene in mente il palazzo del sultano Tippu. Le illustrazioni dell’arrivo degli inglesi, la devastazione portata, le ruberie e mi dico che probabilmente un po’ arrabbiata lo sarei anche io con questo occidente prepotente e arraffone. Arriva il mio turno, il poliziotto mi fa cenno di avvicinarmi con un gesto brusco di comando. Gli porgo il passaporto, controlla e mi guarda. “Lei è qui dal 12 luglio, ma non c’è nessun indirizzo registrato. Dove è stata?” Gli spiego che sono stata a Mysore, in una casa privata della quale ho fornito indirizzo e informazioni all’ingresso in India. Mi guarda con i suoi occhi neri, sembra indispettito dalla mia risposta.”cosa fa lei nella vita? Che lavoro fa?”. Lo guardo, gli sorrido e gli rispondo “I’m a Yoga Teacher”. Il suo volto si apre in un sorriso luminoso, le braccia si aprono in un gesto accogliente, quasi grato. “Oh, thank you. You teach Yoga. You’re ok!” Mi augura buon viaggio giungendo i palmi e salutandomi con un Namaste. Me ne vado commossa. L’idea che lo Yoga possa essere un lasciapassare universale, nel quale riconoscersi come parte di un tutto unico, senza barriere e senza burocrazie che creano distanze mi fa stare bene. E ora a casa.