Sono sull’aereo. L’aereo con le ali più lunghe che abbia mai visto. A bordo, qua e là qualche turbante spunta dai sedili. Carta da zucchero, turchese, nero. Dietro di me un omone con un cagnetto minuscolo sta raggiungendo la moglie indiana. Nuova vita. In Italia non ha più lavoro, insegnerà l’italiano in India. Mi addormento e mi risveglio al sorgere del sole, proprio mentre gli stiamo andando incontro. Sotto di noi un paesaggio lunare. Dune di sabbia a perdita d’occhio. Sul monitor che segna il tragitto del viaggio compaiono alcuni nomi di città, ma mi chiedo come possano esistere città in un luogo del genere, privo di qualsiasi cosa favorevole alla vita. Mentre osservo dal finestrino il paesaggio piano piano vira. Se prima il nulla di sabbia risultava comunque morbido e vellutato ora le rocce grigie e aspre hanno un che di quasi definitivo.

Mentre guardo fuori dal finestrino un aereo sfreccia, più in basso rispetto a noi e mi rendo conto di quanto alto stiamo volando, sopra un tappeto morbido di nuvole. I vetri oscurati conferiscono al paesaggio un aspetto surreale. E realizzo di essere diretta in India. 

Purtroppo arrivati a Delhi scopriamo di non poter lasciare l’aeroporto. Fuori diluvia, ci consoliamo rimanendo all’asciutto, ma ci aspettano 9 ore e mezza di attesa per il volo per Bangalore. Che poi diventano 12. In quelle 12 ore riesco a comprarmi 6 libri e assaggiare le cose più strane che trovo. All’aeroporto di Delhi il wi-fi dura solo 45 minuti, riesco ad avvisare di essere arrivata e poi… Basta. Vago alla ricerca di un segnale che possa mettermi in contatto con Max, Ma neanche da Starbucks hanno il wi-fi per cui mi metto il cuore in pace e… Mangio. Finalmente si parte, è di nuovo notte e tra una perturbazione e l’altra passiamo dal buio più profondo a macchie di luce così brillanti da sembrare dei ricami fatti con fili d’argento, sotto la luna. Nel frattempo comincio a chiedermi se 

a) mi abbiano data per dispersa in Italia

b) troveremo qualcuno all’aeroporto di Bangalore per portarci a Mysore

Eh sì… Perché il viaggio non è mica finito. L’idea di dover affrontare ancora 4 ore di macchina mi fa sentire un po’ decatleta, ma, d’altro canto, le cose belle non son facili da raggiungere e, soprattutto, sono lente.

L’ultima parte del viaggio è tutto fuorché lento. Qui in India puoi vedere praticamente di tutto per strada. Gli indiano si muovono con i mezzi di trasporto nelle condizioni più disparate e spesso disperate. Compresi i nostri. Il nostro autista, provvisto dell’unghia del pollice più lunga e colorata che io abbia mai visto, da far invidia alla Griffith, parte suonando il clacson, guida come un pazzo facendo lo slalom tra camion senza fari, motorini che trasportano almeno tre persone, macchine e tuktuk sgangherati, continuando a suonare senza un motivo apparente. Sembra che vogliano festeggiare il semplice fatto di esserci. Dopo 3 ore abbondanti di viaggio e una sosta presso un’improbabile baracchino in mezzo al nulla arriviamo a Mysore. Sunill, l’autista, spegne il motore, si gira e con aria solenne ci annuncia: He is coming.

Scendiamo per sgranchirci le gambe per strada alcuni cani, 2 enormi mucche che ruminano. Aspettiamo. E alla fine arriva lui, a cavallo di una moto, nel buio i denti bianchi brillano mentre sorride, si ferma e ci guarda da sotto il suo casco da sturmtruppen: Rameshiji. E capiamo di essere finalmente arrivati.