Stamattina non mi sarei alzata. Dopo il week end in giro in macchina e furgone me ne sarei stata volentieri a letto a dormire, ma la pratica chiamava, così, con uno sforzo al limite dell’eroico, mi son buttata giù dal letto. 

La prima lezione è Pranayama. Fatico a stare seduta, la schiena mi tira un po’ e mi formicola un piede, cosa che in questi giorni non mi era mai capitata. Anche Shita oggi sembra un po’ stanca e distratta. Entrando nella shala non la troviamo come al solito ad accoglierci seduta sul suo tappetino. Arriva in ritardo di qualche minutoeil conteggio dei respiri non è preciso come al solito. Tuttavia, alla fine della pratica, mi sento già meglio e sono contenta di essermi forzata ad uscire di casa.

Filosofia oggi è tanto bella quanto complicata. L’impressione che Shita faccia un po’ fatica si palesa nel suo inglese, ancora più difficile da capire e da seguire. Oggi riusciamo però a parlare un po’ di più dei miti e riesco a raccogliere altro materiale. È un lavoro lungo, di cesello, quello che sto cercando di fare. Legare i concetti della filosofia yogica al racconto dei miti non è così immediato, con Shita è più semplice perché riesce a farti capire il perché di alcuni riferimenti che non sempre sono immediati e comprensibili. Il modo di pensare indiano è parecchio diverso dal nostro e in questi frangenti lo è ancora di più. 

Finita filosofia vanno tutti a riposarsi prima della pratica. Rimaniamo solo Anna e io in cucina a chiacchierare nel silenzio, o quasi. I clacson già si fanno sentire. Ci perdiamo nei nostri discorsi, per fortuna Andrea spunta fuori dalla camera per avvisarci che è ora di uscire. Temo per la pratica di questa mattina. Mi sento scarica di energie, sento la pancia brontolare e temo che gli assaggi di ieri facciano effetto. Cominciamo a praticare. Le mia mente è distratta. Si lascia attrarre da quello che c’è intorno e il mio corpo risponde subito, attraverso un muscolo che si contrae, un piede che non trova pace a terra, una torsione che sembra più difficile del solito. Decido allora di obbligarmi a portare l’attenzione al respiro. Nello stesso istante il suo suono diventa più profondo, non morbido e rotondo. È come tuffarsi da una vetta verso il mare profondo. Improvvisamente tutto il “contorno” scompare. Ci sono solo io, il respiro, lo spazio interiore che mi accoglie dopo il tuffo. Piano piano i muscoli si allungano e ogni asana, contro il quale fino a poco prima stavo lottando, diventa comodo e accogliente. È come aver trovato la formula di ogni posizione, la matrice che sta dietro a ogni geometria del mio corpo che segue il conteggio e le istruzioni di Rameshji. Nonostante il sudore (oggi fa un po’ più caldo) che mi cade a gocce sul tappetino producendo buffi toc toc ad ogni mio movimento la pratica scivola via veloce e mi stupisco di quanto arrivi in fretta savasana. Al termine della pratica le mie mani e i miei piedi sono tutti raggrinziti, come quando al mare stavo tanto nell’acqua. È ora di colazione.