Di solito il lunedì è il giorno più pesante della settimana. Se poi segue una domenica passata in giro per templi indiani, lo è ancora di più. Sulla carta. 

Quando la sveglia è suonata alle 7 non ci volevo credere. Mi sentivo gonfia e bolsa (e dalle facce delle mie compagne lo ero) e sentivo male un po’ ovunque, capelli compresi. L’ora di pranayama è stata insolitamente difficile. La mia mente era così ottusa che non riuscivo a capire che cosa fare. L’ora di filosofia è passata via velocemente invece, parlando del sistema delle caste; una cosa complicatissima fatta di caste e sottocaste che possono arrivare a oltre 6000. Basta un minimo dettaglio per richiedere un’altra casta, un po’ come succede negli asana, per i quali basta spostare la poszione delle braccia per dover cambiare anche il nome.

Alle 9.30 arriva Rameshji per gli adjustment. Ci guarda in faccia e proprone una pratica piu morbida, per quanto una sua pratica possa essere morbida: 10 saluti al sole e le standing postures della prima serie. Mi sento come la sora Lella, mentre cerco di entrare in asana che mi sembrano sconosciuti, con il corpo che non mi sembra il mio. Forse nella notte ho fatto un viaggio astrale e sono tornata nel corpo sbagliato, tipo quello della nostra anziana e abbondante padrona di casa. Rameshji, che ci guarda un po’ desolato, ci chiede che adjustment vogliamo fare. Ci guardiamo, nessuno osa parlare per paura di tirarsi la zappa sui piedi, così chiediamo a lui di decidere cosa gli sembra meglio.

– Baddha konasana! Urla. E Baddha Konasana sia! Cominciamo a lavorare con i suoi adjuste self adjustment e, un po’ alla volta, salta fuori una pratica divertentissima in cui ci “coreografa” asana in coppia che poi, come sempre, vuole immortalare.al termine della pratica ci dice che ha avuto un lutto in famiglia e che deve andare a Bangalore. Vuole tornare in serata, ma gli diciamo di fare tutto con calma, faremo la nostra pratica da soli.

E qui inizia una nuova giornata, inaspettata. La nostra occupazione principale sarà mangiare. Andiamo subito da Maya a berci un bel Masala Chai, poi giro spensierato abordo di un tuk tuk guidato da una cozza che vuole portarci dove decide lui, infastidito dalle nostre richieste. Di ritorno a casa mangiamo e ci riposiamo un po’ con l’idea di praticare, come promesso. Decidiamo di fare prima una merenda, giusto un tè e un biscotto ( io me ne faccio fuori un pacchetto di biscotti grondanti burro). Cosa fai?! Pratichi a stomaco pieno?! Facciamo due chiacchiere. Mentre ridiamo alle lacrime sentiamo bussare. È Sheetal che ci fa una sorpresa portandoci due scatole piene di samosa, dei fagottini di pasta fritta ripieni di verdure. I samosa più buoni che io abbia mai mangiato. Son buoni, ma effettivamente un po’ pesanti. Proviamo a praticare comunque. I dolori sono passati, ci muoviamo molto meglio, ma i samosa non aiutano.

Arriva l’ora di cena, guarda un po’. Mi rendo conto di non aver mai smesso di mangiare oggi e anche ora, che sto scrivendo a fine giornata (qui è mezzanotte passata) sento la presenza importante di tutto quello che ho mandato giù oggi. Il viaggio in tuk tuk alla volta del ristorante è avventuroso. Il guidatore si perde e ci porta a quello sbagliato. Cerca di convincerci che gli abbiamo chiesto proprio quello, ma dopo l’esperienza dell’altro fiorni nella quale ci ha mollate nel posto sbagliato e se ne è andato (sì sempre lui, maledetto) non mi frega. Lo “convinciamo” a portarci all’Olive Garden e dopo una serie infinta di giri in contromano, tra buche e improbabili inversioni a U l’autista si ferma davanti al palazzo p, mentre noi stiamo morendo di fame, e ci chiede se vogliamo fare delle foto. Non abbiamo neanche dovuto rispondere. È bastato un semplice sguardo.

Il posto vale tutti i nostri sforzi e i rischi corsi ( tra i quali quello di finire in autostrada in tuk tuk). Grazie Max per avercelo consigliato e grazie amiche per aver scelto di condividere con me questo viaggio.