Oggi è domenica. Abbiamo in programma la gita con la nostra famiglia indiana. Per l’occasione decido di mettermi un vestito indiano. Largo sulla pancia, meglio, visto che oggi si mangerà parecchio. Arriva il pulmino, Rameshji scende e ci porge dei boccettini: to wash your hands. Sorride. A me viene da piangere. Ieri ha visto che ci pulivamo le mani con la boccetta di amuchina e oggi ci ha procurato l’omologo indiano. Giulia suggerisce che dopo avermi vista con la cacca di corvo in testa e la cacca di altro animale non meglio identificato sul piede (questo non l’ho raccontato ieri) ha pensato bene di organizzarsi.

Dopo die giri di dolcetti (uno al cocco e uno al sesamo) deliziosi, diversi chilometri e un filmone di Bollywood l’autista rallenta e ferma un venditore di cocchi in bicicletta. I cocchi penzolano a grappoli dalla bici. Scendiamo e ci beviamo un cocco per uno. Rameshji ci raduna intorno a un gruppo di piantine. Richiama la nostra attenzione con un sorriso, passa la mano sulle foglie che si chiudono a riccio.

Alle 10 ci fermiamo. Non abbiamo neanche bisogno di chiedere per cosa. Si mangia. Rameshji ci informa che siamo entrati in un distretto differente da quello dove si trova Mysore. Nella loro testa distretto diverso = piatti tipici diversi. E così è. Devo dire che questo distretto è delizioso. Sa di morbido budino caldo all’ananas, dosa alle mandorle e miele, dosa alle cipolle e peperoncino atomico, cipolle fritte. Non manca una bella tazza di Chai, che Rameshji fa fare apposta al momento in modo che sia più aromatico. Mentre mangiamo mi mostra un bellissimo bracciale in argento, rigido, decorato con piccoli fili ritorti e intrecciati all’altezza dell’allacciatura. È il bracciale che ho visto sl lo,so della nipotina Chin Mudra. Me lo fa provare. Lo metto, è bellissimo. Lo tolgo. Non è soddisfatto di come ho gestito la cosa e mi mostra come metterlo. Me lo infila al polso, lo chiude. Lo rimira e poi mi mostra come fare a toglierlo senza slacciarlo. Il bracciale è piccolino, sua nipote ha un polso mignon, io ho una mano più larga che lunga. Ci prova. Non riesce. Il bracciale deve uscire così. Non molla. La sua anima yogi si esprime appieno: mi fa un adjustment al polso. Voilà.

La prima tappa è il tempio di Belur, dedicato a Vishnu. È splendido. Le statue sono scolpite direttamente nella pietra di cui è fatto il tempio. Sembra un ricamo. La parte frontale del tempio è dedicata alla danza e alla musica e direi alle arti in generale. In alto si trovano 42 statue di donne che ballano. Ognuna diversa, con piccoli dettagli che le caratterizzano. L’altra parte del tempio è dedicato a Vishnu e alle divinità. Sul lato sinistro, guardando l’ingresso, si trova un piccolo Ganesha protettore degli studenti. Tra marzo e aprile, periodo di esame, migliaia di studenti vengono qui per fare una pooja in suo onore e ottenerne così il favore.

La seconda tappa è il tempio di Halebeedu. Scolpito dallo stesso artista di quello precedente, Jakanachari. LEGGENDA

Ci rimettiamo in viaggio, sono le 16, ci fermiamo a mangiare in un posto lungo la strada. Entrando ci troviamo in un cortiletto con tante stanze che si affacciano. Ce ne assegnano una e entriamo. Tavolone, sedie di plastica. Come al solito ordina Rameshji. Arrivano uova sode e uova sode fritte in un intingolo agro-dolce-piccante. Buonissimo. Poi arriva lui… Il naan da pucciare in salse piccantissime. Non abbiamo forchette, mangiamo con le mani e tutto è ancora più buono.

Gran parte del viaggio per il terzo tempio avviene nientepopò di meno che in autostrada. Ecco, un’autostrada indiana, dove è possibile che ti attraversi davanti un camion o addirittura un contadino con i suoi bufali. O dove, se sbagli uscita, fai un pezzo in contromano. Così, in scioltezza.

La strada per arrivare al tempio passa per bellissimi villaggetti in mezzo alla campagna. Ci sono alcune capanne, ma praticamente tutte le case sono grandi e hanno l’elettricità. Come al solito fuori dalle case ci sono bambini che giocano, animali liberi, persone che lavorano e altre che chiacchierano sedute sul bordo di un campo o nella veranda. Qui si sta bene. Provo a immaginare per un attimo come sia vivere qui, senza sovrastrutture faticose, senza tutto quello che è troppo e che riempie quotidianamente le nostre vite. Cosa puoi desiderare di altro in un posto del genere se non di viverci e di condividerlo con chi ami?

Arriviamo al tempio, ma è chiuso. Peccato, davanti a noi la lunga scalinata che si inerpica lungo pietre lisce e morbide promette uno spettacolo incredibile. Pazienza, sarà per la prossima volta. Perché ci sarà una prossima volta. Con Max.

Rameshji non vuole arrendersi, cerca comunque il modo per salire, ma non c’è niente da fare. Di fronte alla collina però ce n’è un’altra, più piccola, con un tempio simile al primo. Il tempio è chiuso ma è possibile comunque salire lungo una scalinata simile all’altra, solo più piccola. Andiamo. Mentre saliamo cala il tramonto. Ci siamo solo noi, tutti gli altri sono andati via. È un momento magico. Dall’altra parte vediamo il tempio con la lunga scalinata e l’enorme statua all’interno del tempio. Rameshji ci racconta allora la storia.la statua rappresenta un re molto potente e avido che attraverso guerre e prepotenze ha conquistato tutti i territori circostanti. La sua avidità sembrava non avere limiti fino a quando non cominciò a diventare sempre più triste e depresso. Il desiderio continuo porta sofferenza. Così il re decise di abbandonare tutto e ritirarsi in meditazione. Rameshji conclude la storia dicendo che ovunque possiamo trovare i Sutra di Patanjali, gli Yama e i Niyama. Seguirli è una strada ripida.

Ripartiamo convinti di essere diretti a casa. Ormai è buio. Mentre andiamo mi si avvicina Rameshji: ci fermiamo al villaggio di mio zio, andiamo al tempio e mangiamo lì. Poi torniamo a casa. Dillo a tutti.

Annuncio la cosa, siamo tutti stanchi, vedo della disperazione nei loro occhi, domani mattina l’ultima lezione di Pranayama inizierà alle 5.45, ma Rameshji si è fatto in quattro quindi sorridiamo e ringraziamo. E come sempre accade quando sorridi e ringrazi, viviamo una delle esperienze che ci porteremo dietro per sempre. Al tempio del paese hanno tenuto aperto solo per noi. Ci stanno aspettando. Entriamo e comincia il rito. Solo per noi. Arriva il monaco con un piatto di tulsi. Rameshji vi appoggia sopra le mani e il monaco dice il suo nome e non so bene cosa d’altro. La cosa si ripete per tutti i presenti. Il monaco parla veloce, sembra sbrigativo, quasi meccanico. Finito il giro il maestro lo rimanda da me e mi dice di fare la stessa cosa coi nomi di Max, Miche, Lorenzo ed Edoardo.ripetiamo, il monaco si incarta un paio di volte su Edoardo. Vorrei suggerirgli di dire Pippo, ma ormai Edoardo non vuole più quel soprannome. Finalmente riesce a finire tutti nomi. Mi guarda un attimo: anyone else?!

Comincia la pooja accende il fuoco sul piatto che porta davanti alle divinitàripetendo i mantra. Questo tempio è diverso dagli altri. Ci sono tre altari in tre nicchie differenti, collegate tra loro da porticine dove il monaco passa per ripetere il rito davanti a ogni statua. Noi corriamo avanti e indietro per stare davanti alla nicchia giusta. Il risultato da fuori è abbastanza buffo, anche perché il monaco ha uno strano modo di parlare. Senza prendere fiato tranne una volta ogni tanto dove fa una specie di risucchio soffocato. Si rivolge a Rameshji e comincia una specie di nenia con tono severo, ma il suo modo di fare è sempre automatico. È come se non fosse realmente presente qui. La ne ia dura quello che ci sembra un tempo infinito. Passo dalla certezza che si tratti di un racconto, alla sicurezza che si tratti di una latro mantra molto ma molto lungo al dubbio che ci stia cazziando in malo modo, ma dalla faccia di Rameshji non riesco a capire cosa stia succedendo.Finito il predicozzo Rameshji mi dice che mi racconta dopo cosa sia successo mentre il monaco passa con l’acqua di cocco. La versa nelle nostre mani da bere per poi passare le mani sulla testa. Mi giro e vedo Andrea bagnato fradicio. Per evitare di berla si e fatto una doccia. Ai suoi piedi una piccola pozza. La funzione termina ci avviamo verso l’uscita. Notiamo che si è formato un capannello e di persone. Un signore che ha l’aria di essere una specie di custode del tempio ci chiede se possiamo fare una foto nel tempio. Ne scatta un’infinità. Rameshji ne vuole una così suo figlio ce ne scatta un altro paio, per sicurezza. Stiamo per muoverci, ma arriva un altro tizio, armato di cellulare per fare un’altra foto. Sto per mettere il pi di fuori dal tempio quando sento il maestro chiamarmi nuovamente: SilUia!

Torno indietro e mi mostra una stanza piena zeppa di divinità fatte in sandalo e in dorate. Con aria tronfia mi dice che questo è l’unico tempio che ospita tutte le divinità nelle loro varie forme. Usciamo, lo zio ci porta a casa sua. Mentre camminiamo ci accorgiamo del silenzio che ci circonda. Dopo giorni e giorni nel frastuono assordante di Mysore, fatto di clacson, urla, scimmie e scoiattoli che fanno versi di tutti i tipi, questo silenzio è ancora più magico. Nel villaggio ci sono poche luci, le stelle si vedono benissimo stasera. La casa dello zio e bellissima, entrando da una porticina verde acqua ci troviamo in un corridoio lungo e stretto. La televisione è accesa, due file di sedie sono state sistemate per accoglierci. Lo zio ci mostro tutta la casa. È enorme e spaziosa, ma le cose sono accatastate in modo casuale e privo di un senso occidentale. È come essere in un magazzino. L’unica parte curata nel dettaglio, con cura e amore è il piccolo tempio dove campeggiano statue e immagini di Ganesh. Mentre giriamo per casa lo zio ci segue fotografandoci. In questa vacanza siamo stati fotografati in ogni posto dove siamo andati, quasi sempre unici occidentali presenti, osservati come oggetti misteriosi, salutati con entusiasmo, sorrisi, domande, inviti. Sarà difficile tornare alla normalità. Ci offrono da mangiare. Rameshji ci dice che in India l’ospite e celebrato come una divinità ed effettivamente è quello che accade. Il cibo è squisito e, anche se siamo pieni dal pasto delle 5, va a finire come al solito: mangiamo tutto per onorare un’ospitalità a dir poco unica.ci piacerebbe rimanere a dormire in questo angolo di paradiso, dove il tempo sembra essersi fermato, i problemi sembrano solo fastidi e la vita viene celebrata ogni giorno per la sua semplice bellezza, ma è tardi, anzi tardissimo, e abbiamo ancora 80 km da percorrere prima di arrivare a casa. Un’altra decina di foto da diversi punti della stanza, con diversi cellulari e siamo pronti. Ci avviamo al furgone a malincuore, desiderando ancora in cuor nostro di poter restare. Arriva trafelato un signore che ci guarda con aria imbarazzata salutandoci: namastè. È un caro amico dello zio venuto a vedere gli ospiti “esotici” in visita al villaggio. Lo zio è gonfio come un pavone (scopriamo trattarsi del farmacista del villaggio) Rameshji lo è ancora di più. Felice come un bambino che può mostrare il frutto del proprio lavoro, si guarda intorno con l’aria di chi pensa: ce l’ho fatta. 

Saliamo sul pulmino, tutte le luci sono accese, sembra di essere in un discoteca a quattro ruote. Via si parte. No, non è vero. Il pulmino non si accende. Per un attimo valutiamo tutti la possibilità di dormire a casa dello zio. L’autista ingrana la retro, lo lascia andare indietro, gira la chiave, i. Pulmino so accende. Succede sempre così, quando lasci andare la risposta arriva subito. Mentre scrivo siamo ancora in viaggio, villaggio dopo villaggio ci avviciniamo a Mysore. Domani sarà l’ultimo giorno e mi ritroverò a tirare le somme di questa incredibile esperienza che mi ha insegnato tanto. Per oggi mi limito a pensare a quanto ci perdiamo ogni giorno, mentre ci preoccupiamo di quello che sta per accadere, costruendo dighe di scuse e idee preconfezionate dalla nostra mente che non ci permettono di vivere appieno quello che ci arriva, secondo dopo secondo, istante dopo istante, la vita.