Ultimo giorno di seminario. Questa mattina Edimburgo ci saluta con nuvole, vento e gelo. Si inizia ovviamente con un mantra, quello mimato. Dopo una meditazione passiamo alla teoria che ci impegna per la prima parte della mattinata.  D. F. ci parla di kosha e ci chiede di individuare in quale ci riconosciamo in questo momento. Da qui ci conduce, piano piano, progressivamente e senza quasi che ce ne accorgiamo a delineare l’oassatura della nostra pratica ideale in questo momento, bilanciando tutti e 5 i kosha, attraverso passaggi molto semplici e pratici, lavorando in coppia. Mi rendo conto ancora una volta di come sia potente la parola nel dare una forma chiara e fruibile a idee che fino a poco prima sembravano confuse o addirittura assenti. Mi rendo conto del perché io senta il bisogno, durante i miei viaggi di studio, di mettere nero su bianco a fine giornata quello che mi è successo. Da una parte mi serve a ordinare tutto per rielaborarlo, dall’altra mi serve a prendere le distanze, svuotando la mente come fa Silente con il pensatoio, senza perdere l’opportunità di andare a ripescare poi in un scondo tempo quello che voglio richiamare alla mente. Finito il lavoro a coppie D. F. ci invita a praticare, ognuno per sè, per la prossima ora e mezza, cercando di integrare le cose viste in questi giorni. Manco a dirlo, un’ora e mezza meravigliosa, che passa in un lampo.

Nel pomeriggio apriamo con un breve lavoro sulle emozioni e sulla loro legittimità come messaggeri di qualcosa che possiamo decidere di evitare o di affrontare per poi passare a una breve sessione di restorative yoga in cui D. F. dà il meglio di sè in quanto a fantasia sull’uso dei millemila accrocchi che ci ha fatto portare al seminario. Mi ritrovo seduta a gambe incrociate davanti a una sedia con una coperta che mi avvolge la schiena, abbracciata a un bolster al quale vengo legata con un cinghia. Facciamo un paio di posizioni conciate in questa maniera e poi ci liberiamo per prepararci a una sessione di yoga nidra di 45 minuti. Ormai esperta nell’imballaggio del corpo umano mi sistemo una cuccia da paura, con due coperte sotto la schiena, il bolster sotto le ginocchia, un asciugamani sotto i talloni e un altro sapientemente ripiegato come il migliore degli origami per accogliere la testa e il collo. Concludo coprendomi con la copertina, visto il clima della giornata. Credo che D. F. abbia parlato per tutta la durata del tempo. Non ne sono sicura, tuttavia, perché la mia mente era divisa tra due mondi, entambi vividi e reali. Un mondo fisico, fatto di sensazioni palpabili, materiche e immediatamente riconoscibili e terrene, l’altro mentale, impalpabile, ma realissimo, fatto di colori e suoni. Dondolo da un mondo all’altro, ogni volta che torno in quello materico ne percepisco tutta la pesantezza; ogni volta che passo a quello mentale ne percepisco tutte le catene e le costrizioni. Rimango in questa sospensione fino a quando finalmente mi libero. Non so a che punto io sia riuscita a farlo. Quando accade il tempo sparisce e ogni istante diventa eterno, espandendosi e frazionandosi in tanti micromomenti che rendono l’istante esterno e l’eternità un istante. E poi suona il campanellino e D. F. ci richiama alla realtà. Mi metto seduta e la osservo. È lì, davanti a me, seduta, sorridente, minuta e proporzionata come una bambolina. Penso a quanto le sue parole anni fa abbiano cambiato la mia visione dello yoga, ma non solo, della vita, di me stessa, di come ero e di come avrei voluto essere. E proprio in quell’istante realizzo di chi sia, questa persona così modesta e amorevole con tutti, aperta a tutte le domande e pronta a rispondere: non ne ho la più pallida idea. Grazie, che fortuna.